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La logica per cui il verbo “studiare” continui ad essere, nel linguaggio e nelle pratiche comuni, in qualche modo catalogato tra i contrari di “divertirtisi”, è falsa e nefasta, e continuerà a mietere non solo ondate di cattivi studenti, ma soprattutto di uomini e donne disarcionati da un sano rapporto con la conoscenza, se non provvederemo, in qualche modo, a eliminarla.

Non c’è, infatti, bisogno di nessun genio della lampada, né di un trattato di qualsivoglia teoria, per capire che qualsiasi cosa presentata come pedante, noiosa, faticosa, non attira certo le simpatie e il desiderio di frequentarla.

Più che mai oggi che, come ci ricorda Romano Madera, “fatica” e “sacrificio” sono diventate parole tabù, perdendo il peso educativo che avevano nella vita sociale e trasformandosi da “parole culto”, su cui si sono fondate tutte le civiltà umane segnate dalla scarsità dei beni, a “parole minaccia” per la civiltà dello sperpero e dei consumi in cui viviamo.

impara un metodo di studio efficace
Oggi, ciò che la concezione contemporanea inserisce nella categoria delle cose buone e giuste, non prevede né la fatica, né il sacrificio e, tanto meno, la noia; anzi, prescrive il loro esatto contrario: la facilità, meglio declinata come: semplificazione, immediatezza; e l'abbondanza, a sua volta declinata come: consumo, opulenza, spreco.

Tuttavia, non c’è anatema più abusato di quello che genitori e -ahinoi- anche insegnati, lanciano allo studente di turno, dando corpo a macumbe tipo: “Ah, vedrai quando andrai a scuola,” oppure, più esplicito: “Ah, hai finito di divertirti, il prossimo anno inizia la scuola,” o ancora: “Non credere di poter giocare per tutta la vita, a settembre inizia la scuola.”.

Con questo carico di gioiose aspettative, la gran parte dei bambini entrano nella scuola dell’obbligo e si rendono conto ben presto che il refrain di anno in anno non cambia, cosicché, se per caso a qualcuno venisse la malaugurata idea di pensare: “Sai che, però, questa scuola non è mica cosi male”, ecco pronta la nuova preveggente maledizione: “Quest’anno è stata una passeggiata, ma non crederai che anche l’anno prossimo sarà cosi?”.

Il vero dramma, però, è che la macumba, il più delle volte, si concreta e lo studente sperimenta, sulla propria pelle, che la scuola (e, per associazione, studiare e, per associazione, conoscere -sic) è davvero il contrario del divertimento, della piacevolezza, del godimento.

Un tempo, quando parole come -appunto- “fatica” e “sacrificio” erano tanto interconnesse alla vita, da percepire come naturali e non necessariamente negative molte delle conseguenze che ne discendevano, anche la scuola poteva permettersi di reggere un impianto che, su quelle parole, forgiava i suoi adepti, e gli insegnanti adottare metodi che, da millenni, su quelle parole, avevano impartito i loro metodi di studio.

Oggi questi metodi, per i motivi che qui ho cercato pur brevemente di descrivere, non funzionano più e, laddove funzionano, si rivelano inutilmente dispendiosi a fronte delle scoperte che nel frattempo si sono avvicendate e delle tecnologie di supporto che abbiamo ideato.

Ciò non significa che non si debba, in qualche modo, faticare, o che si possano eliminare disciplina e sacrificio dalle pratiche di apprendimento, ma che la loro rappresentazione, inutilmente terrorista, andrebbe bandita dal linguaggio intimidatorio con cui stupidamente si spera di dare ai nostri ragazzi un qualche tipo di stimolo ma, soprattutto, contrastata adottando fattivamente didattiche davvero innovative, che si sposino con le ricerche e le conoscenze che oggi abbiamo sul funzionamento del cervello e che, uno su tutti, ci dicono che apprendere può e deve essere divertente e coinvolgente.

Non ho mai conosciuto nessun bambino o ragazzo che, pur trascinato in un’attività divertente, sentisse la fatica o rifiutasse il sacrificio e non c’è bisogno di alcuna ricerca sul campo né di qualsivoglia scienza dell’apprendimento per ricordarci che le materie che abbiamo amato di più e che, a volte, sono anche diventate gli strumenti del nostro lavoro da adulti, non sono quelle dove abbiamo fatto meno fatica, ma quelle in cui abbiamo avuto la fortuna di incappare in un docente capace e coinvolgente.

Se un tempo queste abilità erano più o meno casuali, dettate dalla buona sorte, mentre la faceva da padrone il millenario ruolo della severità, dell’autorità, dello stare ore e ore chini sui libri finché quelle parole, spinta dopo spinta, non entravano nel cervello; oggi sappiamo che può non essere così, anzi sappiamo che deve "non essere così", perché così è inutilmente faticoso e dispendioso e ci sono, invece, modalità più divertenti per ottenere migliori risultati.

Chi forma i nostri docenti, per fare due soli esempi, all’importanza e all’uso delle tecniche della teatralità e dell’empatia, quali fondamentali strumenti per favorire l’apprendimento?

Il motto che condivido con le persone che frequentano i miei corsi è che, quando apprendere diventa facile, studiare diventa divertente. E’ importante però che, tra gli insegnanti come tra gli studenti, queste conoscenze siano diffuse e che si superino le resistenze e le diffidenze che ogni cambiamento impone.


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In tanti anni di lavoro con studenti di varia età e capacità, ho imparato a frazionare questa macro categoria in molte interessanti sottocategorie che mi aiutano a capire come funziona il mondo degli studenti e quali strategie adottare per meglio aiutarli.

Una di queste è quella relativa ai tempi di studio.

Abbiamo, in questo senso, due sottocategorie più o meno simili per densità, ma opposte per atteggiamento: quella di coloro che dedicano pochissimo tempo allo studio, (a volte perché se ne fregano, altre perché non ne hanno bisogno) e quella di coloro che impiegano una quantità di ore esorbitanti.

In entrambi i casi non significa, per inciso, raggiungere buoni o cattivi risultati. Vi sono, infatti, quelli che se ne fregano ma, alla fine, se la cavano sempre, seppur con risultati inferiori rispetto alle possibilità; e pure quelli che, pur passando ore e ore sui libri, ottengono risultati comunque scarsi o insufficienti. 

impara un metodo di studio efficace
Vi è poi la terza categoria, decisamente minore, di coloro che bene equilibrano tempi di studio, sport, amici e divertimento, perché hanno adottato un efficace metodo di studio supportato da un’adeguata organizzazione della giornata -che è poi l’obiettivo che aiutiamo a raggiungere nei nostri corsi.

Inutile dire che il mio lavoro si sostanzia più frequentemente con le prime due sottocategorie e, molto più raramente, con la terza.

La prima cosa che mi fa riflettere in questo senso, è il parossistico aumento, negli ultimi anni, della categoria di coloro che, a prescindere dai risultati, passano sui libri molto più tempo di quanto necessiterebbe; tanto che la scuola finisce per assumere un peso specifico tale da occupare la quasi totalità della loro esistenza, con conseguente precipizio del benessere e, quindi, possibile compromissione del loro futuro scolastico.

Come dico sempre a coloro che frequentano i miei corsi, genitori e insegnanti compresi: studiare è assolutamente importante, fondamentale, ma non di più o di meno di incontrare un amico, fare sport, giocare, etc. Se tutte queste attività non riescono ad avere una loro sana armonia, rischiamo di far pagare ai nostri ragazzi un prezzo importante, anche in termini di successo, che non si misura solamente nell'arrivare ad occupare chissà quale scranno della piramide sociale, ma nell'equilibrato benessere che la nostra vita esprime.

Incontro ogni giorno in studio manager e dirigenti che, pieni di ansie e stress, comprerebbero volentieri quel “tempo libero” che nemmeno i soldi possono comprare -si legga, ad esempio: “Open”, la struggente autobiografia di Andre Agassi, per comprendere il costo che spesso ha il successo privo di armonia esistenziale.

Come, dunque, fare coesistere in armonico equilibrio mondo della scuola e mondo della vita?

Ovviamente ogni caso fa caso a sé e, proprio nei nostri corsi, cerchiamo di individuare la misura necessaria per ogni singolo caso, che dipende da diverse variabili: capacità del soggetto, richieste della scuola, contesto di vita generale, supporti disponibili, etc. Ciò detto, esistono alcune regole di base che, se rispettate, danno già il loro positivo contributo.

Il primo livello di attenzione, l’abbiamo già sottolineato, riguarda possedere un buon metodo di studio, ovvero aver accumulato (consapevolmente o meno) un certo bagaglio di strategie e tecniche, tale da rendere efficace il rapporto tra sforzo e risultato.

Sapere se il tuo metodo di studio può dirsi efficace è fin banale: se senti di fare troppa fatica, se studi molto senza ottenere adeguati risultati, se litighi spesso per la scuola, se ti senti in colpa o non all'altezza… allora, con grande probabilità, qualcosa nel tuo metodo non funziona. Per coloro che possiedono un buon metodo di studio, infatti, la scuola, l’università, funzionano come un orologio: ci possono essere alti e bassi, il meccanismo, come quelli a molla, si può a volte fermare, ma poi basta dargli una ricarica e tutto si rimette in moto come prima.
L’altro elemento cardine è l’organizzazione.
La capacità di organizzare i propri impegni, misurandoli con sapienza e accortezza, affinché ognuno abbia il giusto spazio, è una dote importante che se non si è appresa nel tempo (come accenno nell'articolo: “Questi compiti s’hanno da fare?”), può essere frutto dell’applicazione di adeguate strategie. Quel che certo, è che non può mancare.

Oltre queste macro attenzioni, dalla struttura troppo complessa per poterle qui adeguatamente delucidare, ve ne sono altre più semplici e di immediata applicazione.

La prima di queste è il tempo che dedichiamo ad ogni sessione di studio. Ne abbiamo già parlato diffusamente nell'articolo “Il fabbricante di pause”. Ci limitiamo dunque a ricordare che il nostro cervello, per quanto ci si sforzi, non riesce a stare davvero concentrato per più di 30/40 minuti, per questo è fondamentale programmare, timer alla mano, cicli di lavoro di questa durata con una pausa di 10 minuti tra un ciclo e l’altro.

Vi è poi il tempo generale che, se ben strutturato, non dovrebbe superare le due, massimo tre ore giornaliere per gli studenti delle scuole medie superiori (specie i licei), cinque ore per gli universitari (distribuite, laddove non c’è lezione, tra mattina e pomeriggio), un’ora, massimo due, per gli studenti delle medie inferiori e massimo un’ora per la scuola primaria.

Ovviamente si tratta di parametri che vanno misurarti caso per caso, ma credo sia importante avere a mente degli standard di adeguatezza per capire se e quanto li stiamo sforando e riflettere se è il caso di porvi rimedio.


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Chiunque sia dotato di un sistema cerebrale minimamente funzionante, sa che per capire un concetto bisogna anzitutto acquisirlo e che uno dei modi efficaci per farlo è ascoltare qualcuno che ce lo spiega.

Eppure, uno degli errori più ricorrenti che, durante i miei corsi, riferiscono bambini, ragazzi e giovani universitari che desiderano migliorare il loro apprendimento, è proprio legato alle difficoltà di ascolto, nel senso che in aula non riescono ad ascoltare, non ascoltano o, bene che vada, ascoltano male.

Nei processi di apprendimento intenzionale applichiamo per lo più tre tipi di memoria: quella visiva, quella auditiva e quella cinestesica. Ognuno di noi, per esperienze e costituzione, privilegia poi una di queste ma, di fatto, non solo le usiamo tutte e tre, ma dovremmo imparare a sfruttarle tutte e tre, per aumentare la nostra performance (non a caso, nel nostro corso condividiamo diverse tecniche in questo senso).

Ciò detto, capite bene che saltare a piè pari una di queste modalità o comprometterle, qualsivoglia sia la motivazione, riduce fortemente la possibilità di apprendere o, per bene che vada, aumenta decisamente i tempi di studio: uno su tutti quello casalingo, dove troppi studenti passano molto più tempo di quanto necessiterebbe, a discapito della loro felicità (quando non della loro salute) e, quindi, del loro impegno scolastico -studenti che si mordono la coda.

La domanda che delucida questo concetto e che spesso riporto ai miei corsisti è la seguente: “Potreste pensare di studiare la caduta dell’impero romano senza aprire e leggere il libro di storia?”, a parte i casi disperati che mi rispondono “Sì”, ovviamente non è possibile. Solo che in questo caso l’impossibilità ci sembra scontata, mentre non ci sembra altrettanto scontata quando eviriamo o compromettiamo l’ascolto nei nostri processi di apprendimento.

Lavora, in questo senso, l’immagine ottocentesca delle “sudate carte”, con il povero studente chino su tomi di libri, mentre la sua vita scorre senza gioie.

impara un metodo di studio efficaceQuesta immagine, che ha influenzato generazioni e generazioni di studenti, non solo è triste, ma è anche falsa e la scuola per prima (ne fosse a conoscenza) dovrebbe combatterla. Essa, infatti, riferisce un modello centrato sulla apprendimento visivo, in particolare visivo-verbale, ma esclude il fatto che, per apprendere, sia importante anche ascoltare e muoversi (vedi il post: “La memoria vien correndo”).

Qualche tempo fa, in un’intervista, Paola Mastracola, insegnante e scrittrice, che pure stimo e con cui non di rado concordo, definiva così la pratica dello studio: “Quella cosa particolarissima per cui uno sta fermo per ore e ore, chiuso in casa, seduto e, possibilmente, solo, a fare una cosa che non si vede e che, apparentemente, è veramente del tutto inutile: cioè fare entrare parole nella mente, in modo che poi uno le sa e non ha più bisogno di supporti.”.

Nooooooooooo!!!!!

Ecco distrutte in cinque righe decenni di ricerche neuroscentifiche.

C’è, infatti, nell'affermazione della Mastracola, tutto quello che uno studente, secondo ciò che ad oggi sappiamo sul funzionamento del cervello, non dovrebbe fare: “stare fermo” (evirando la memoria cinestesica, senza contare che le ricerche ci indicano che studiare in movimento aumenta notevolmente la memorizzazione); “per ore e ore” (i tempi dello studio dovrebbero essere ripartiti per step da 30/40 minuti e mai per ore e ore affaticando inutilmente il cervello); “chiuso in casa” (l’ossigenazione e la luce naturale sono fondamentali, tanto che sarebbe assolutamente più efficace studiare all'aperto); “seduto” (studiare in piedi è più efficace perché aumenta la concentrazione); “possibilmente solo” (studiare in gruppo o almeno in due -cooperative learning- favorisce lo scambio delle informazioni); “a fare una cosa che non serve” (mancava solo il venir meno della motivazione, che è un altro tassello fondamentale dell’apprendimento); e, per finire in bellezza: “non ha più bisogno di supporti” (mentre il supporto informatico diviene sempre più determinate per collocare le informazioni e lo studente può ampliare a dismisura il suo sapere, poiché la logica non è più quella di incamerare informazioni ma sapere come e dove andarle a cercare).

E striamo parlando di una valida professoressa di liceo, come sa chi ha letto i suoi libri. Tuttavia, come bene si evince, emerge ancora quell’immagine depressa e deprimente dello studente sulle sue “sudate carte”.

E, in effetti, questa immagine è tanto potente che, chiunque senta la frase: “Devi studiare”, subito ad essa ricorre, mentre a nessuno allo stesso richiamo sorge l’immagine di uno studente sorridente che in aula ascolta il docente che spiega.

La questione, dunque, è proprio questa: nelle nostre menti raramente studiare è associato ad ascoltare. L’ascolto, mediamente quello cui partecipiamo dai banchi di scuola, è per lo più pensato come un momento in cui qualcuno, che la sa più lunga di noi su un determinato argomento, ce lo delucida.

La tragedia è che, questa distorsione, è spesso propria anche di molti insegnati che, se sapessero davvero e fino in fondo che, mentre spiegano, i loro studenti stanno studiando (o potrebbero studiare), adotterebbero tutt'altro modo di fare lezione (ad esempio la teatralità -non a caso il lamento più ricorrente dello studente che non ascolta è perché si annoia e/o perché si distrae),

Un buon metodo di studio deve quindi necessariamente prevedere l’ascolto, non come momento passivo di delucidazione dei contenuti, ma come momento attivo, parte integrante dello studio: Come farci meglio ascoltare dagli studenti, come meglio e più efficacemente ascoltare i docenti, quali tecniche e strategie ci aiutano in questo senso, è uno dei vari temi che trattiamo nel nostro corso.




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“Qual è la cosa che ti piace di più. La cosa che, potendo, non smetteresti mai di fare?”.

Sottopongo spesso le persone che si affidano alle mie cure a questo piccolo test la prima volta che le incontro. Una domanda che, ovviamente, non ha alcun intento diagnostico (e non lo vuole avere), ma le cui risposte, come potete intuire, possono essere foriere di tante interessanti riflessioni.

Ci sono, ad esempio, coloro che non sanno che dire perché nulla li entusiasma, o quelli che non sanno che dire perché, al contrario, troppe cose li appassionano e faticano a scegliere. Ci sono poi le risposte che sottolineano le tendenze di un’epoca. Quelle che, invece, caratterizzano l'età dell’interrogato e quelle che ne divergono proiettandolo in un altrove anagrafico. Oppure ci sono le risposte bizzarre, che meritano una loro considerazione a se stante per la loro irrilevanza statistica… Insomma, ogni restituzione abbozza un mondo (quello del curato) e stimola il flusso di un disegno a me fondamentale per poterli al meglio aiutare.

Nel corso degli anni ho potuto così stilare una piccola classifica misurando le corrispondenze tra queste tendenze e la capacità del soggetto di rendere efficaci gli stimoli terapeutici, abbassando le resistenze e favorendo il cambiamento.

Stravince, tra tutte le possibili risposte, quella di coloro che hanno un rapporto di autentico godimento e profonda interazione con l’arte, disposizione che però riguarda un numero davvero esiguo di persone; mentre risulta statisticamente più rilevante e non meno efficace chi matura questo rapporto con una particolare porzione del grande contenitore “Arte”, ovvero quella della narrativa.

Uscire dalla relazione prettamente estetica, storico-critica o contemplativa con l’arte, per acquisirne i profondi benefici esistenziali cui rimanda, è -infatti- passaggio assai complesso, cui difficilmente si giunge senza il supporto di un percorso specifico. La narrativa, invece, per sua naturale caratteristica, trascina più facilmente il lettore in quegli stessi anfratti in cui l’arte dispone i suoi intrugli medicamentosi.

Non che i non-lettori siano destinati a fallire nella relazione educativa, per carità (i nostri interventi hanno una media di successo attorno all’87% lettori o non lettori che siano) ma, senz'altro, questa mia piccola personale indagine, racconta che i lettori hanno diverse chances in più per uscire vittoriosi dal loro malessere o, comunque, per uscirne più in fretta.

Per chi ha potuto riflettere sui significati profondi della narrativa non sarà certo una sorpresa. Già Umberto Eco marcava la profonda differenza tra “un lettore” è “Il Lettore”: il primo consuma le pagina per passatempo, il secondo si porta per sempre incise nella schiena le pugnalate inflettigli dal Bruto shakespeariano -figurarsi il non lettore.
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Questi segni che la narrazione sa lasciare nel Lettore con la “L” maiuscola (colui che partecipa attivamente ai drammi e alle gioie della trama, tanto da con-fondersi in essa), costituiscono una vera e propria mitobiografia: un surplus di esistenza e di esistenze pseudovirtuali che si aggiungono alla vita, per così dire, «reale» e ne espandono le esperienze emotive, visive, mnemoniche, oltre i limitati spazi del corpo fisico.

Leggere, in questo senso, non è dunque solo un piacere dei sensi, un piacere estetico, ma la possibilità profonda di evadere la nostra esistenza oltre i confini dello spazio e del tempo, del possibile e del reale. Grazie alla lettura posso naufragare su un’isola deserta e imparare, come Robinson Crusoe, a gestire le fatiche della sopravvivenza; posso attraversare le galassie a bordo dell’Arkadia di Isac Asimov, perdere la vita in un carcere del Kansas insieme al Perry Edward Smith di Truman Capote, o con l’Achille di Omero nella guerra di Troia.

Questo surplus di vita, che la “vita reale” non sarà mai in grado di restituire, costituisce (come immagino sia facilmente comprensibile) un patrimonio inestimabile di opportunità strategiche, di capacità risolutive, di alternative efficaci, tanto più valide in quelle situazioni in cui, per diversi motivi, incontriamo un ostacolo, inciampiamo, finiamo in una delle tante possibili buche che la vita ci riserva e, allora, da lì, dobbiamo ingegnarci per costruire un qualche tipo di scala che ci permetta di tornare in superficie o, come nel caso della lavoro di aiuto alla persona, dobbiamo sfruttare adeguatamente le scale che chi ci aiuta costruisce per noi, affinché si possa tornare a riprendere il cammino del benessere.

Come molti studi hanno testimoniato, leggere non è semplicemente un’attività che stimola la nostra immaginazione o le nostre emozioni, così come riduttivamente si tende a credere. La risonanza magnetica funzionale del cervello ha evidenziato come, durante la lettura, diminuiscono i picchi di stress e aumenta la condizione di relax, con una percentuale addirittura superiore all'ascolto della musica o al camminare.

Se, invece, leggiamo una metafora che in qualche modo si riferisce ad esperienze tattili, ecco che si attivano le stesse regioni del cervello che sono implicate quando tocchiamo realmente qualcosa.

Stessa cosa accade con le aree del cervello deputate a produrre i processi empatici e la cosiddetta “intelligenza emotiva”, amplificando quella “teoria della mente” che è alla base della nostra capacità di intuire e capire gli stati mentali altrui.

Insomma, leggere aumenta le connessioni tra varie regioni del cervello, con un effetto che dura addirittura diversi giorni. Il cervello di un lettore sottoposto a risonanza magnetica funzionale in fase di non lettura, mostra, infatti, un aumento della connettività del lobo temporale sinistro (area associata al linguaggio), ma anche nel solco centrale che separa la corteccia motoria da quella sensitiva, il che ci fa forse comprendere perché con tanta facilità finiamo per entrare in sintonia con i protagonisti delle storie in cui siamo immersi.

In molti dialetti lombardi e alcuni emiliani il significato di "pirla" rimanda all'idea di trottola (cioè qualcuno che gironzola senza scopo) e, in effetti, la vita di chi non legge rischia di essere un po' così, magari non proprio senza scopo, ma certo con tante meno probabilità di trovarne uno.

Leggete, dunque e fate leggere i vostri figli. Chi legge, se proprio non campa cent'anni, certo può campare cento e più vite.



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Nel bestiario delle diverse difficoltà, non necessariamente organiche, che pregiudicano l’efficacia dei processi di apprendimento, un posto d'onore è spesso occupato dalla capacità o meno di ogni studente di gestire le pause.

Possiamo sostanzialmente suddividere questi soggetti in tre grandi categorie.

La prima è quella del maratoneta, colui che non fa una pausa manco a sparargli e se ne sta attaccato al libro ore e ore, finché non ha concluso ciò che deve studiare. Questa categoria, non particolarmente numerosa, tende ad aumentare i suoi adepti in prossimità di ogni verifica, esame o interrogazione quando, insane e improduttive full-immersion dell’ultimo momento, illudono lo studente di poter recuperare settimane di pigro fancazzismo o semplicemente placare l’ansia del “non mi ricordo più niente”.

Numerose ricerche hanno dimostrato che questi straforzi dell’ultimo minuto non solo sono inutili, ma anche dannosi per la salute, tanto che, per essere più efficaci, si dovrebbe arrivare al fatidico ultimo giorno senza nemmeno aprire il libro -il che implica una adeguata organizzazione da parte dello studente, ma anche docenti formati che sappiano quanto sia didatticamente insensato non lasciare al discente almeno due settimane di tempo per prepararsi, cosa che sarebbe anche semplice se si soprassedesse all'ideologia esclusivamente punitiva delle interrogazioni a sorpresa a favore di quelle programmate.

La seconda categoria è quella, più che ben rappresentata, del cazzaro: colui che fa più ore di pausa che minuti di studio, quello che arriva all'ultimo minuto pensando che poi, semplicemente posando la testa sul libro, le nozioni passino per magica osmosi nel suo cerebro. A vero dire a questa categoria non sempre corrisponde un atteggiamento volontario, come potrebbe tradire il nome; a volte si tratta più semplicemente di studenti che, per vari motivi, presentano un difetto nella capacità di concentrazione, ma il risultato finale (laddove non si operi per migliorare tale lacuna) è comunque lo stesso.

La terza categoria è quella, per mia statistica meno frequentata, che dà il titolo a questo articolo: il fabbricante di pause, ovvero colui che scientemente studia e programma le pause da fare.

Quest'ultima è la categoria che maggiorante ci interessa, perché qui sta una delle più efficaci strategie per studiare bene: fare pause e farle sensate.

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Infatti, se la categoria del cazzaro che, per diversi motivi, naviga nel multiverso della pause, virando da una distrazione all'altra, è evidentemente disfunzionale ad una buona pratica di apprendimento, non diversamente lo è, come abbiamo accennato, la categoria apparentemente più adeguata del maratoneta.

Insomma, qualsivoglia estremismo è a rischio di disfunzione, quando non tracima addirittura nel patologico, e non difettano questi esempi.

In verità le pause sono fondamentali per costruire un buon metodo di studio (come per altro qualsiasi attività). Il problema è che, spesso, sono affidate al caso, cosicché -nella migliore delle situazioni- finiamo per fare pausa quando siamo stanchi, il che significa aver già compromesso la nostra efficacia.

I più virtuosi tra gli studenti con cui ho avuto la possibilità di lavorare, mi dicono: “Ma io mentre studio non mi stanco”. È vero, lo studente abituato, spesso non sente come il maratoneta la stanchezza. Peccato però che poi, a fine percorso, se non ha usato ben le sue energie, bisogna raccoglierlo con il cucchiaino.

Un esempio eclatante è stata la maratona femminile delle Olimpiadi di Londra 2012, vinte dall'etiope Tiki Gelana sulla keniota Florence Kiplagat che, in testa fino agli ultimi 5 km, forzava eccessivamente il ritmo, tanto che un crollo fisico la farà giungere al 20° posto.

Nella maratona, come nella vita, non vince solo colui che ha una condizione migliore, ma chi la sa gestire al meglio, calibrando le proprie energie. 
E per lo studio come funziona?

Per quel che concerne lo studio dobbiamo anzitutto sapere che il cervello umano, fosse anche quello del classico secchione che prende sempre il massimo dei voti, ha un tempo di concertazione che si aggira attorno ai 40/45 minuti; dopo quel tempo la sua attenzione inizia inevitabilmente a declinare e, come il maratoneta, se forza oltre quel muro, rischia solo di produrre inutile stanchezza -ogni buon docente dovrebbe saperlo e tarare le sue lezioni su questa ritmica.

La mia esperienza tuttavia mi dice che non sono molti gli studenti che riescono a tenere 45 minuti di concentrazione (di concentrazione vera!! Non a caso nel mio percorso dedicato a rendere efficace il metodo di studio -scoprilo qui- dedico una parte sostanziale proprio alle strategie per migliorare i tempi di concertazione). Stare 45 minuti incollati al libro, immersi nei suoi contenuti, non è, insomma, roba sa tutti. E' allora, anzitutto, importante sapere qual'è il nostro Punto di Disattenzione, dove -appunto- la nostra concentrazione cede. 

Farlo è semplicissimo ma, chissà perché, come molte delle cose semplici e fruttuose, pochi lo fanno. 

Prendete allora un cronometro (molti smartphone ne hanno uno già preinstallato), avviatelo mentre chinate la testa sul libro e cercate di restare il più a lungo possibile immersi nello studio; quindi, quando risolleverete la testa, come emergendo dalle profondità marine, arrestate il cronometro. Sono passati cinque minuti? Dieci? Trenta? Questo è il vostro Punto di Disattenzione. 

Attenzione. E' bene sapere che non basterà una sola rilevazione. Affinché il punto di disattenzione sia il più preciso possibile, monitoratevi per una settimana e segnate tutte le misurazioni: la media dei risultati si avvicinerà maggiormente alla vostre reale capacità.

Conoscere questo dato è fondamentale e vi permetterò, da qui in poi, di non andare più a caso. 

Prima di iniziare a studiare potrete, infatti, settare un qualsiasi timer (anche in questo caso molti smartphone ne hanno uno già preinstallato), esattamente sul vostro Punto di Disattenzione, sapendo che, quando suonerà, sarà il momento giusto per fare una pausa.  

A questo punto molti studenti mi chiedono, ma se è bene non superare i 45 minuti, qual'è il tetto minimo sotto il quale non dovremmo andare?
Gli studi ci dicono che studiare diventa più efficace se riusciamo a stare concertati per almeno 25 minuti. Ciò detto, qualsiasi siano i nostri tempi, ora abbiamo un grande vantaggio: conosciamo il nostro limite e, partire da quello, possiamo allenarci per migliorarlo.

Come? Semplice. Per ogni sessione di studio, aggiungi al timer 1 minuto oltre il tuo limite. Monitorati, però e non ti forzare troppo. Meglio fermarsi qualche giorno per consolidare un risultato che strafare. Vedrai che, se bene ti alleni, in poco tempo raggiungerai risultati sorprendenti. 

Una volta che hai conquistato un buon tempo di concentrazione non inferiore ai 25 minuti e non superiore ai 45, puoi quindi concederti una pausa per ogni step realizzato.  

Anche qui è bene non lasciare questo tempo al caso. Si è infatti osservato che, se il cervello ha bisogno di fare pausa, la concentrazione deve essere rinfrescata, non mandata in vacanza. Il tempo corretto di ogni pausa, affinché abbia la funzione di volano che risani e fortifichi la concentrazione, deve variare tra i 5 e i 15 minuti.

In questo lasso, non state seduti: fate due passi, bevete, guardate fuori dalla finestra cercando l'orizzonte, sgranchitevi (in un prossimo articolo ne illustrerò l'importanza) ma, soprattutto, non affaticate il vostro cervello con videogiochi, televisione o quant'altro, inutile dire quanto sarebbe controproducente. 




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